Ipocondria: Sintomi, Cause e Strategie per Gestirla

Introduzione

L’ipocondria, oggi chiamata nel DSM-5 disturbo d’ansia da malattia, è una condizione psicologica caratterizzata da una preoccupazione persistente e ingiustificata riguardo alla propria salute. Chi soffre di ipocondria vive con l’idea costante di avere o di sviluppare una malattia grave, nonostante esami medici rassicuranti e l’assenza di reali sintomi clinici.

Questo disturbo non è soltanto una “paura eccessiva”, ma una condizione che può compromettere seriamente la qualità della vita, portando a stress, ansia, isolamento sociale e difficoltà relazionali.

In questo articolo esploreremo:

  • Cos’è l’ipocondria e come si manifesta
  • Le cause psicologiche e biologiche
  • I sintomi più comuni
  • Le differenze con una normale preoccupazione per la salute
  • Conseguenze psicologiche e relazionali
  • Consigli pratici per gestire l’ipocondria
  • Strategie di supporto psicologico ed esercizi utili

Cos’è l’ipocondria?

L’ipocondria è un disturbo legato all’ansia che porta la persona a interpretare in modo catastrofico segnali normali del corpo (come mal di testa, battito cardiaco accelerato, sensazioni gastrointestinali).

Un leggero dolore muscolare può essere percepito come segno di tumore; un colpo di tosse come sintomo di una malattia polmonare grave. La mente della persona ipocondriaca tende a concentrarsi eccessivamente sul corpo, interpretando ogni variazione fisiologica come una minaccia.

Il DSM-5 ha ridefinito questo disturbo in due categorie principali:

  1. Disturbo d’ansia di malattia: preoccupazione per la salute senza sintomi significativi.
  2. Disturbo da sintomi somatici: presenza di sintomi fisici reali, ma amplificati da ansia e interpretazioni catastrofiche.

Cause dell’ipocondria

L’origine dell’ipocondria è multifattoriale. Alcuni dei fattori più comuni includono:

1. Esperienze precoci

  • Aver vissuto malattie gravi in famiglia
  • Essere cresciuti con genitori molto ansiosi riguardo alla salute
  • Aver perso una persona cara a causa di una malattia improvvisa

2. Fattori cognitivi

  • Tendenza a focalizzarsi su stimoli corporei
  • Difficoltà a tollerare l’incertezza
  • Pensiero catastrofico (“se ho mal di testa, significa che ho un tumore cerebrale”)

3. Fattori biologici

  • Iperattività del sistema nervoso autonomo
  • Maggiore sensibilità interocettiva (percezione dei segnali interni del corpo)

4. Fattori sociali e culturali

  • Sovraesposizione a notizie sanitarie (specialmente online)
  • Ricerca compulsiva di sintomi su internet, detta anche cybercondria

Sintomi dell’ipocondria

I sintomi dell’ipocondria possono variare, ma i più comuni includono:

  • Preoccupazione costante per la salute
  • Interpretazione catastrofica di sintomi lievi
  • Ricerca frequente di rassicurazioni mediche
  • Paura di contrarre malattie infettive o degenerative
  • Ansia intensa prima o dopo visite mediche
  • Difficoltà a credere ai risultati negativi degli esami clinici
  • Evitamento di luoghi o persone per paura di contagio
  • Controllo ossessivo del corpo (palpazioni, misurazione della pressione, controllo della temperatura)

Differenza tra normale preoccupazione e ipocondria

Tutti, almeno una volta, ci siamo preoccupati della nostra salute. La differenza è che:

  • Una preoccupazione normale è proporzionata, temporanea e si riduce con rassicurazioni mediche.
  • Nell’ipocondria, invece, la paura è persistente, sproporzionata e resiste anche alle rassicurazioni.

Esempio: una persona senza ipocondria, dopo un esame del sangue normale, si tranquillizza. Una persona ipocondriaca, invece, pensa che ci sia stato un errore di laboratorio o che la malattia non sia ancora emersa.

Conseguenze psicologiche e relazionali

L’ipocondria può compromettere diversi aspetti della vita:

  • Relazioni familiari: i familiari possono sentirsi impotenti o esasperati dalle continue richieste di rassicurazione.
  • Relazioni sociali: evitare luoghi pubblici o contatti per paura di malattie porta a isolamento.
  • Carriera e lavoro: frequenti assenze per visite mediche e difficoltà di concentrazione riducono la produttività.
  • Benessere psicologico: ansia cronica, insonnia e possibili sintomi depressivi.

Consigli pratici per gestire l’ipocondria

Ecco alcune strategie efficaci per chi convive con l’ipocondria:

1. Limitare le ricerche online sulla salute

La “cybercondria” alimenta l’ansia. Una regola utile è stabilire un tempo massimo (es. 15 minuti a settimana) per informarsi da fonti affidabili.

2. Tenere un diario delle preoccupazioni

Annotare i momenti in cui sorgono i pensieri ipocondriaci aiuta a riconoscerne i pattern ricorrenti e a prendere distanza.

3. Praticare la mindfulness

La mindfulness aiuta a restare nel presente, riducendo la tendenza a rimuginare su scenari catastrofici. Bastano 10 minuti al giorno di esercizi di respirazione consapevole.

4. Differenziare i fatti dai pensieri

Chiedersi: “Ho prove concrete della mia malattia o è solo un pensiero ansioso?”. Questo esercizio di ristrutturazione cognitiva riduce la potenza delle paure.

5. Stabilire un rapporto stabile con un medico di fiducia

Evitare di consultare continuamente nuovi specialisti. Avere un medico di riferimento riduce la ricerca compulsiva di diagnosi.

6. Sfidare gradualmente i comportamenti di evitamento

Se si evita di andare in certi luoghi per paura di malattie, è utile esporsi gradualmente, accompagnati da tecniche di rilassamento.

7. Coltivare interessi e attività gratificanti

Sport, hobby e relazioni positive riducono il tempo e l’energia mentale dedicati alle paure per la salute.

Trattamenti psicologici efficaci

La psicoterapia rappresenta il trattamento più indicato per l’ipocondria. In particolare:

1. Psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT)

  • Aiuta a identificare i pensieri distorti
  • Fornisce strumenti per gestire l’ansia
  • Propone tecniche di esposizione e prevenzione delle rassicurazioni

2. Terapia metacognitiva

Si concentra sui processi di pensiero ripetitivi e sul controllo eccessivo dei sintomi corporei.

3. Psicoterapia psicodinamica

Esplora le radici profonde dell’ansia legata alla salute, spesso legata a paure inconsce di perdita, abbandono o morte.

4. Supporto farmacologico (nei casi gravi)

In alcuni casi, un medico psichiatra può valutare l’uso di farmaci ansiolitici o antidepressivi per ridurre i sintomi più invalidanti.

Esercizi pratici per chi soffre di ipocondria

Esercizio 1: Il “diario delle prove”

Scrivi ogni volta che temi di avere una malattia grave. Poi, dopo qualche giorno, rileggi e verifica se la paura si è avverata. Questo esercizio mostra come le preoccupazioni raramente si concretizzino.

Esercizio 2: Tecnica del “tempo della preoccupazione”

Stabilisci 20 minuti al giorno in cui “concederti” di pensare alla tua salute. Fuori da questo tempo, se arriva il pensiero, rimandalo al momento prestabilito.

Esercizio 3: Meditazione del corpo neutrale

Siediti e osserva le sensazioni del corpo senza etichettarle come buone o cattive. Notale e lasciale andare. Questo riduce l’iperfocalizzazione catastrofica.

Quando chiedere aiuto?

Se la preoccupazione per la salute diventa costante, interferisce con la vita quotidiana e non si riduce nonostante le rassicurazioni mediche, è importante rivolgersi a uno psicoterapeuta.

Il percorso terapeutico può essere un’occasione preziosa non solo per ridurre i sintomi dell’ipocondria, ma anche per imparare a vivere con maggiore serenità, accettando l’incertezza che fa parte della condizione umana.

Conclusione

L’ipocondria non è una semplice paura immotivata, ma un disturbo psicologico che può pesare sulla vita personale, lavorativa e sociale. Riconoscerla è il primo passo verso la guarigione.

Attraverso la psicoterapia, esercizi pratici e strategie quotidiane, è possibile imparare a gestire l’ansia per la salute, recuperando un rapporto più sereno con il proprio corpo e con la vita.

Ricorda: la salute non è solo assenza di malattia, ma capacità di vivere con equilibrio tra mente e corpo.

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Perché non riesci a staccarti dallo smartphone? La verità psicologica sulla dipendenza digitale.

“Quante volte hai detto a te stesso: ‘Solo 5 minuti su Instagram…’ e poi ti sei ritrovato a scrollare per mezz’ora?

Se anche tu senti di non riuscire a staccarti dallo

smartphone, non sei solo.

In questo video scopriamo perché il nostro cervello diventa dipendente dallo smartphone, cosa succede a livello psicologico…

e soprattutto, come puoi iniziare a riprendere il controllo del tuo tempo e della tua mente.”

dipendenza da smartphone

Introduzione

Viviamo in un’epoca in cui lo smartphone è diventato una vera e propria estensione del nostro corpo e della nostra mente.

Lo utilizziamo per comunicare, informarci, lavorare, distrarci, ricordare, orientarci.

Tuttavia, questo potente strumento può trasformarsi in una trappola: sempre più persone sviluppano una vera e propria dipendenza da smartphone, con effetti negativi sulla salute mentale, sulle relazioni e sulla qualità della vita.

In questo articolo esploreremo il fenomeno della dipendenza da smartphone, analizzandone le cause psicologiche, i sintomi più comuni, i meccanismi mentali coinvolti e le strategie terapeutiche per affrontarla.

Cosa si intende per dipendenza da smartphone?

La dipendenza da smartphone non è solo “usare tanto il telefono”. La dipendenza da smartphone non è ancora classificata come disturbo specifico nei principali manuali diagnostici (come il DSM-5), ma la comunità scientifica concorda nel riconoscerla come una forma di dipendenza comportamentale.

Viene spesso associata ad altri disturbi come l’Internet Addiction Disorder o la nomofobia (paura di restare senza telefono).

Si tratta di un uso eccessivo, impulsivo e disfunzionale del telefono, che genera una perdita di controllo e un significativo impatto negativo su vari ambiti della vita: lavoro, studio, relazioni sociali, sonno, autostima e benessere psicologico. Smettere provoca ansia o irrequietezza.

La psicologia considera questa una vera e propria dipendenza comportamentale: non c’è una sostanza, come nelle droghe, ma c’è comunque un circuito di ricompensa cerebrale che si attiva.

Il nostro cervello viene continuamente ricompensato con notifiche, like, messaggi, video…

Ogni volta riceviamo una piccola dose di dopamina, il neurotrasmettitore del piacere.

I sintomi della dipendenza da smartphone

Come si riconosce una dipendenza da smartphone? Ecco alcuni segnali chiari:

  1. Uso eccessivo e incontrollato: passi ore al giorno sul telefono, anche senza uno scopo preciso. Ti capita di usarlo mentre mangi, guidi, sei in compagnia o a letto. Lo controlli in continuazione, anche senza notifiche.
  2. Ansia da disconnessione: provi ansia o irritabile se non hai il telefono a portata di mano. Ti preoccupa l’idea di perdere messaggi o notifiche. Provare a restare disconnesso ti causa disagio.
  3. Danni alle relazioni e alla produttività. Le relazioni personali ne risentono (partner, amici, familiari). Il lavoro o lo studio ne vengono compromessi. Ti distrai facilmente e fai fatica a concentrarti.
  4. Negligenza di bisogni primari. Dormi poco o male perché usi il telefono fino a tardi. Rimandi impegni o attività fisiche a causa del telefono. Ti dimentichi di mangiare o di prenderti cura di te.
  5. Negazione del problema. Ti giustifichi dicendo che “tutti usano il telefono così”. Ti infastidisce quando qualcuno ti fa notare il problema. Hai provato a ridurre l’uso, ma senza successo.

Come lo smartphone crea dipendenza?

Le app sono progettate per catturare e mantenere la nostra attenzione.

Ecco alcune strategie psicologiche usate:

  1. Notifiche push: creano anticipazione. Ci dicono “Ehi! Qualcosa sta succedendo!”
  2. Scroll infinito: come una slot machine. Ogni volta che scorri, il cervello spera di trovare qualcosa di interessante.
  3. Like e commenti: rinforzano il bisogno di approvazione sociale.

Inoltre, spesso usiamo lo smartphone per evitare emozioni spiacevoli: noia, ansia, solitudine.

Diventa quindi un meccanismo di regolazione emotiva.

In psicologia si parla di rinforzo intermittente: come nei giochi d’azzardo, non sai mai quando riceverai una ricompensa, e questo mantiene l’attenzione ancora più viva.

Le cause psicologiche della dipendenza da smartphone.

La dipendenza da smartphone non nasce dal nulla. Dietro a questo comportamento ci sono meccanismi psicologici profondi e fattori socioculturali che alimentano l’uso compulsivo del dispositivo.

  1. Ricerca di gratificazione immediata: Ogni notifica, messaggio o “mi piace” genera una scarica di dopamina, il neurotrasmettitore del piacere. Questa gratificazione immediata rinforza il comportamento, creando un circuito simile a quello delle dipendenze da sostanze.
  2. Evitamento emotivo: Molte persone usano lo smartphone per fuggire da emozioni difficili come noia, ansia, solitudine o stress. Scrollare i social o guardare video diventa un modo per anestetizzare il disagio emotivo.
  3. Bisogno di approvazione sociale: I social media amplificano il bisogno di essere visti, accettati, apprezzati. Ogni “like” viene vissuto come una conferma del proprio valore personale. Questo genera una dipendenza dall’approvazione altrui.
  4. FOMO – Fear of Missing Out: La paura di perdersi qualcosa di importante (notizie, eventi, messaggi) spinge molte persone a controllare lo smartphone in modo compulsivo. Il timore di essere tagliati fuori è uno dei motori principali dell’uso eccessivo.
  5. Mancanza di regolazione interna: in molti casi, l’uso disfunzionale dello smartphone è legato a scarsa consapevolezza di sé, difficoltà nella gestione del tempo, impulsività e assenza di limiti interni.

Quali sono gli effetti psicologici?

La dipendenza da smartphone può portare a diversi effetti negativi sul benessere psicologico:

  1. Ansia e agitazione quando il telefono non è a portata di mano (nomofobia).
  2. Disturbi del sonno, soprattutto per l’uso serale o notturno.
  3. Calo dell’attenzione e difficoltà a concentrarsi.
  4. Bassa autostima, confrontandosi costantemente con gli altri sui social.
  5. Isolamento sociale: paradossalmente, più connessi online, ma meno presenti nella vita reale.

Come uscirne? Strategie psicologiche.

Non serve eliminare lo smartphone. Serve cambiare il rapporto che abbiamo con lui.

Ecco alcuni consigli psicologici efficaci:

  1. Consapevolezza: monitora quanto e quando lo usi. Ci sono app per questo (come “Digital Wellbeing” o “Moment”).
  2. Prendi nota dei momenti in cui usi il telefono automaticamente.
  3. Rifletti sulle emozioni che provi prima e dopo l’uso.
  4. Imposta un limite di tempo giornaliero per app specifiche.
  5. Elimina le notifiche non essenziali. Il silenzio è d’oro… e calma il cervello.
  6. Stabilisci momenti senza telefono: mentre mangi, prima di dormire, o al mattino appena sveglio.
  7. Crea alternative sane: porta con te un libro, ascolta musica, fai una passeggiata, pratica sport, coltiva relazioni sane.
  8. Impara tecniche di gestione dello stress (mindfulness, respirazione, journaling).
  9. Prova il digital detox: un giorno o un weekend senza smartphone.
  10. Cerca supporto psicologico: Quando la dipendenza da smartphone è radicata, può essere utile rivolgersi a uno psicologo finalizzato a individuare le cause profonde del comportamento, lavorare sulla regolazione emotiva, rafforzare l’autoefficacia e l’autostima, riscoprire una relazione sana con la tecnologia.

La chiave è riappropriarti della tua attenzione, perché è una delle risorse più preziose che hai.

Conclusioni

Se ti sei riconosciuto in queste dinamiche, non sentirti in colpa.

Il sistema è progettato per agganciarti. Ma con un po’ di consapevolezza e strategia, puoi riprendere in mano il controllo.

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Ansia quando tutto va bene: quando la felicità genera inquietudine.

Ansia quando tutto va bene

Introduzione

Hai mai provato ansia proprio nel momento in cui tutto sembrava andare per il meglio? Provare ansia quando tutto va bene è un fenomeno molto più comune di quanto si pensi. Un nuovo lavoro, una relazione appagante, una fase serena della tua vita… eppure, sotto la superficie, una voce interiore sussurra che qualcosa potrebbe andare storto. Se ti riconosci in questa sensazione, sappi che non sei solo.
In questo articolo esploreremo in profondità questo paradosso psicologico: perché l’ansia si presenta proprio nei momenti di calma e successo? Quali meccanismi mentali la alimentano? Come affrontarla in modo costruttivo? Scopriremo anche come questa forma di ansia può diventare un’occasione per comprendere meglio noi stessi.

Cos’è l’ansia “paradossale”?

L’ansia è una risposta naturale del corpo e della mente a una minaccia percepita. Ma cosa succede quando quella minaccia non esiste? Quando tutto sembra, razionalmente, andare bene? In questi casi parliamo di ansia anticipatoria o ansia paradossale: uno stato emotivo in cui l’individuo si sente in allerta o preoccupato nonostante non ci sia un pericolo reale.

I sintomi più comuni

Chi sperimenta ansia anche quando la vita è serena può manifestare:
• Pensieri catastrofici (“E se qualcosa andasse storto?”)
• Difficoltà a rilassarsi o godersi il momento presente
• Sensazione di colpa per sentirsi bene
• Paura che la felicità sia “troppo bella per durare”
• Tensione muscolare, affaticamento, insonnia
• Bisogno di ipercontrollo su ogni aspetto della vita.

Perché proviamo ansia quando tutto va bene?

Questa forma di ansia può avere molteplici radici psicologiche, spesso intrecciate tra loro. Ecco le più comuni:

1. Paura dell’imprevedibilità

Molte persone sviluppano un bisogno di controllo come risposta a traumi passati o esperienze destabilizzanti. Quando la vita va bene, l’assenza di problemi può far emergere una sensazione di incertezza: “Per quanto durerà questa pace?”. La felicità, non essendo completamente sotto controllo, può sembrare pericolosa.

2. Schemi mentali negativi interiorizzati

Se durante l’infanzia o l’adolescenza hai interiorizzato l’idea che “la felicità non dura” o che “non meriti il successo”, potresti inconsciamente sabotare il tuo benessere. Questi schemi cognitivi disfunzionali, spesso derivanti da modelli genitoriali o educativi, creano un conflitto tra ciò che vivi e ciò che credi di meritare.

3. Abitudine al disagio

Alcune persone crescono in ambienti emotivamente instabili o stressanti. In questi casi, il cervello si abitua a vivere in uno stato costante di allerta. Quando finalmente si raggiunge una fase di serenità, il sistema nervoso – ancora regolato sulla modalità “sopravvivenza” – può rispondere con ansia.

4. Fobia della felicità

Sì, esiste davvero. È chiamata cherofobia, ovvero la paura di essere felici. Chi ne soffre può temere che la felicità sia seguita inevitabilmente da qualcosa di brutto. Questo meccanismo può portare a evitare attivamente situazioni gratificanti o a provare ansia proprio nei momenti di gioia.

5. Conflitto tra desideri e paure

A volte il benessere raggiunto attiva desideri profondi, come investire in una relazione, cambiare lavoro o mettersi in gioco. Ma questi desideri possono anche generare paure inconsce: paura di fallire, di non essere all’altezza, di deludere gli altri. L’ansia emerge come sintomo di questo conflitto interno.

6. Senso di colpa del “sopravvissuto”

Alcune persone si sentono inconsciamente in colpa se la loro vita è migliore di quella dei loro cari e delle persone che stanno intorno a loro. Questo specifico senso di colpa è stato per la prima volta individuato nei sopravvissuti ai cambi di concentramento che si sentivano in difetto per essere sopravvissuti a differenza dei loro familiari e amici.

Il ruolo del cervello: un’ipotesi evolutiva

Dal punto di vista evolutivo, il cervello umano è progettato per prevedere e prevenire i pericoli. Nei momenti di tranquillità, può attivare una sorta di “scansione del pericolo” per individuare minacce potenziali, anche quando non ce ne sono. È un tentativo del nostro sistema nervoso di “prepararsi al peggio”, nel timore che la calma sia solo temporanea.

Come distinguere un’ansia fisiologica da un disturbo

Provare un po’ di preoccupazione o inquietudine, anche quando le cose vanno bene, può essere normale. Ma quando questa sensazione:
• è frequente o persistente
• compromette la tua capacità di goderti la vita
• ti porta a evitare situazioni positive
• si manifesta con sintomi fisici ricorrenti (tachicardia, insonnia, tensione)
…allora è il caso di approfondire. Potrebbe trattarsi di un disturbo d’ansia generalizzato (GAD) o di un disturbo d’ansia con caratteristiche atipiche.

Cosa fare se provi ansia anche quando tutto va bene

1. Riconosci e accetta l’ansia

Il primo passo per gestire l’ansia è accettarla senza giudicarti. Spesso, chi vive questo tipo di ansia si vergogna: “Come posso sentirmi così se la mia vita va bene?”. In realtà, l’ansia non segue la logica, ma emozioni profonde. Accogliere ciò che senti è già una forma di guarigione.

2. Metti in discussione i pensieri automatici

Impara a riconoscere i pensieri distorti o catastrofici. Alcuni esempi comuni:
• “Va tutto troppo bene, qualcosa andrà male”
• “Non mi merito questa felicità”
• “Meglio non affezionarsi troppo a questo momento”
La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) lavora proprio su questi pensieri, aiutandoti a sostituirli con interpretazioni più realistiche e rassicuranti.

3. Lavora sulle tue convinzioni profonde

L’ansia che emerge nei momenti positivi può rivelare convinzioni inconsce su te stesso e sul mondo. Chiediti:
• Cosa credo di meritare davvero?
• Che idea ho della felicità? La vedo come instabile, pericolosa, irraggiungibile?
• Quali esperienze passate influenzano il mio rapporto con il benessere?
Un percorso terapeutico può aiutarti a portare a galla queste credenze e trasformarle.

4. Allena la consapevolezza del momento presente

La mindfulness è una pratica efficace per uscire dal circuito dell’ansia anticipatoria. Riporta la tua attenzione al “qui e ora”, allenando la mente a godere del presente senza giudicarlo né temere il futuro. Anche solo 10 minuti al giorno di meditazione possono fare la differenza.

5. Normalizza la felicità

Sì, anche la felicità ha bisogno di essere normalizzata. Non è un lusso né un’illusione passeggera: è una parte legittima della vita. Più ti abitui a vivere momenti positivi senza sospetto, più il cervello imparerà che può sentirsi al sicuro anche nella gioia.

Quando rivolgersi a un professionista

Se l’ansia diventa pervasiva o ti impedisce di vivere serenamente, non esitare a chiedere aiuto. Uno psicologo o psicoterapeuta può offrirti gli strumenti per:
• comprendere le radici della tua ansia
• sviluppare nuove modalità di pensiero
• regolare meglio le tue emozioni
• costruire un rapporto più sano con la felicità
Ricorda: non c’è nulla di sbagliato in te. Provare ansia nei momenti felici è una richiesta di ascolto, non un difetto da correggere.

Conclusione

L’ansia quando tutto va bene può sembrare paradossale, ma è un segnale importante. Racconta di ferite, paure e credenze che meritano di essere viste e accolte. Non combatterla, ma ascoltala. Dietro quel disagio potrebbe esserci il tuo desiderio più autentico: imparare a fidarti della serenità, godere senza paura, e accogliere la felicità come un diritto, non come un rischio.

Domande frequenti (FAQ)

1. È normale provare ansia anche quando va tutto bene?

Sì, è più comune di quanto si pensi. Molte persone sperimentano ansia in momenti di felicità per timore che qualcosa possa rovinarla.

2. L’ansia quando tutto va bene può diventare un disturbo?

Sì, se è persistente e compromette il benessere quotidiano può rientrare nei disturbi d’ansia e va trattata con l’aiuto di un professionista.

3. Qual è la terapia più indicata per questo tipo di ansia?

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è particolarmente efficace, ma anche approcci basati sulla consapevolezza (mindfulness) o la psicoterapia psicodinamica possono essere utili.

4. Devo sentirmi in colpa se non riesco a godermi la felicità?

Assolutamente no. L’ansia non è una colpa ma una richiesta di ascolto. Può indicare una difficoltà profonda che merita attenzione, non giudizio.
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Senso di colpa: come gestirlo (Video n.1)

Ciao a tutti! In questo video articolo torno a parlare di senso di colpa, vi spiegherò in cosa consiste, come distinguerlo dalla vergogna, quando è sano sentirsi in colpa e quando diventa malsano e dannoso per la nostra salute mentale e fisica.

Differenza tra senso di colpa e vergona

Voglio iniziare cercando di distinguere tra senso di colpa e vergogna; infatti a volte vengono confusi ma sono due cose ben diverse.  

Senso di colpa

Vergogna: che cos’ è?

La vergogna è una sensazione spiacevole, un turbamento interiore accompagnato da emozioni come tristezza e paura, che sperimentiamo quando abbiamo infranto una regola morale o sociale e siamo stati scoperti; ad esempio potrei provare vergogna nel dire al mio vicino di casa che ho perso il lavoro. Infatti si può dire che la vergogna ha una natura più narcisistica perché ha a che fare con lo sguardo degli altri.

Senso di colpa: sintomi

Il senso di colpa mi manifesta sempre con un turbamento interiore più o meno profondo, con sensazioni spiacevoli ed emozioni come paura, rabbia, tristezza derivate da un atto mancato o compiuto che ci fa sentire di aver violato una nostra regola etica o morale e si manifesta anche se nessuno ci vede o sa di questa violazione (ad esempio se vado molto veloce in macchina e provoco un incidente attraversando un incrocio con il semaforo rosso, mi sentirò in colpa). Il senso di colpa genera sensazioni e pensieri di rimorso, rimpianto che creano una tensione interna. Si possono associare sintomi come mal di testa, dolori allo stomaco, ansia, insonnia. In casi più estremi può portare a forme di autopunizione.

Ci sentiamo invasi da una sensazione spiacevole e rivolgiamo verso di noi accuse e giudizi severi che ci fanno stare male; Se il senso di colpa è molto intenso ci sentiamo totalmente invasi da quelle sensazioni, immersi, sovrastati, schiacciati, il pensiero torna sempre su quell’evento o situazione che ci tortura.

Senso di colpa sano

Ma il senso di colpa è sempre inutile o patologico? No, infatti per poter vivere in società abbiamo bisogno di condividere delle regole morali, che ci permettono di mantenere un certo ordine e evitare quindi il caos.

Il fatto di possedere dentro di noi delle regole che ci sono state insegnate dalla nostra famiglia e dalla società in cui viviamo ci permette di regolare il nostro comportamento e le relazioni. Se ad esempio, nell’esempio che ho fatto prima, ho causato un incidente con la mia macchina infrangendo delle regole del codice stradale è giusto che io provi un senso di colpa e che quindi intervenga per aiutare o rimediare quando è possibile.

Esiste quindi un senso di colpa sano che funziona come un autoregolatore interno; in questo caso sarebbe più giusto parlare di senso di responsabilità. Infatti nella nostra cultura il termine colpa si è intriso di un significato più generale e spirituale che deriva anche dai valori religiosi soprattutto di origine cattolica. In alcune persone infrangere una regola morale viene spesso associata alla punizione divina o comunque ad una profonda sensazione di essere sbagliati come persone, quindi di un giudizio negativo verso noi stessi che diventa globale.

Dall’altra parte anche l’assenza totale di senso di colpa diventa quindi un indicatore di malessere psicologico.

Senso di colpa patologico

Ma invece quando il senso di colpa può diventare eccessivo e patologico? Se nel soggetto c’è una eccessiva tendenza a responsabilizzarsi per ciò che accade fuori di lui o per le emozioni che prova o i pensieri che pensa  si può parlare di senso di colpa patologico.

La persona in questione sarà continuamente tormentata da rimorsi, ansia, pensieri ossessivi e intrusivi perché tenderà ad esagerare il proprio ruolo e responsabilità in quello che gli accade, fuori e dentro di lui o lei. Non riuscirà quindi più a distinguere il sano egoismo dal comportamento etico e morale sbagliato. Inoltre questo meccanismo di colpevolizzazione avverrà in modo automatico, inconscio, cioè al di la della volontà del soggetto.

Alcune persone si sentono in colpa in modo intenso e duraturo anche solo per aver pensato o desiderato qualcosa che ritengono moralmente sbagliato; questo è indice di una rigidità nella parte inconscia della nostra mente dove sono contenute le varie regole morali e insegnamenti ricevuti nell’infanzia e da ognuno di noi poi interiorizzati; Freud ha definito questa struttura il super io; ecco quando il super io è troppo rigido  è come se dentro di noi ci fosse un giudice molto severo e pronto a puntarci il dito e punirci.

Come nascono i sensi di colpa?

Ma da dove arriva questa tendenza a sentirsi eccessivamente responsabili? L’origine è sempre da ricercarsi nell’infanzia e nelle relazioni con i genitori o le principali figure di accudimento.

Provo a fare un esempio: se  da bambino sono stato giudicato, colpevolizzato ogni volta che mi allontanavo da mia madre per esplorare in modo sano e legittimo l’ambiente ecco che da adulto potrei sentirmi in colpa quando cerco la mia autonomia.

Oppure se da piccolo mi sono convinto che dovevo essere io con i miei comportamenti a rendere felici mamma e papà ecco che da adulto potrei  avere difficoltà a dire di no in modo sano alle richieste eccessive di aiuto che mi potranno arrivare, tendendo sempre a sacrificare i miei bisogni per quelli degli altri.

In psicoterapia si ripercorrono le relazioni familiari, le dinamiche, cioè il modo in cui si comunicava e le aspettative che abbiamo avvertito su di noi fin da bambini per capire da dove nascono i sensi di colpa patologici.

Come dicevo prima, fino ad un certo livello è sano e giusto che proviamo sensi di colpa. I

l problema è quando questa sensazione diventa pervasiva e ci condiziona eccessivamente la vita fino a auto-sabotarci e a privarci di esperienze positive perché non riusciamo a sviluppare il sano egoismo che è essenziale per essere felici.  

Solo quindi ripercorrendo in psicoterapia le varie epoche della nostra vita potremo diventare coscienti di come ci siamo formati delle credenze su noi stessi e sul mondo che diventano patogene, e di come in modo inconscio hanno spesso governato la nostra vita. Impareremo inoltre ad accettarci pienamente per quello che siamo e per i nostri bisogni imparando a distinguerli da quelli che ci sono stati imposti dalla famiglia o dalla società, diventando quindi più liberi.

Primo esercizio: come ridurre il senso di colpa “nevrotico”

Un primo esercizio che tutti possiamo fare e quello di prendere per un attimo distanza dai nostri sensi di colpa per capire se sono ragionevoli o meno; proviamo a scrivere ciò che ci tormenta e proviamo poi a rileggerlo come se a raccontarlo fosse un nostro amico, quindi cercando di operare un distacco emotivo. Ora chiediamoci se quelle parole scritte ci fanno lo stesso effetto. Se ce le raccontasse un nostro amico ci sentiremmo di condannare totalmente quella persona? Qual è il reale ruolo che il nostro amico ha in quello che ci racconta? E’ veramente e unicamente sua responsabilità ciò che è successo?

Conclusioni

Senso di colpa e vergogna sono due sensazioni differenti. Esiste un senso di colpa sano e uno patologico. In psicoterapia si comprende l’origine del senso di colpa e come ci condiziona nella vita di tutti i giorni; questo ci permette di sentirci finalmente più liberi e felici.

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Ansia sociale: cause e rimedi. Consigli pratici.

Che cos’è l’ansia sociale? Con questo articolo affronto un tema importante collegato all’autostima e cioè la paura del giudizio che si concretizza nella forma più semplice e comune nella timidezza e nella sua forma patologica nell’ansia sociale o fobia sociale.

In questo articolo cercherò di distinguere tra timidezza e disturbo d’ansia sociale. Cercherò di spiegare quando si può parlare di una vera e propria patologia su cui è possibile intervenire con la psicoterapia.

Introduzione

Voglio infatti subito chiarire che tutti noi, prima o poi, sperimentiamo episodi di ansia sociale o timidezza. Infatti ogni volta che dobbiamo affrontare un evento sociale dove verremo esposti all’osservazione di altre persone e quindi ad un possibile giudizio, avvertiamo un disagio che è normale se rimane ad un livello tale da non bloccarci o portandoci a rinunciare.

Ci sono anche delle sfumature individuali; alcune persone sono caratterialmente più timide, ma non per questo vivono grosse limitazioni nella vita. Pensiamo ad un grandissimo attore e regista italiano come Massimo Troisi che ha trasformato la sua timidezza in un valore aggiunto nei sui film.  

In questo articolo vedremo come questo tipo di ansia sociale può diventare realmente un problema che ci blocca e peggiora la qualità della vita fino a diventare una vera e propria fobia. Vi spiegherò anche quali sono gli interventi terapeutici più efficaci e vi suggerirò quattro semplici tecniche che potrete subito utilizzare.  Vorrei però chiarire da subito che ciò non può sostituirsi ad una psicoterapia quando il problema diventa troppo invasivo.

Disturbo d’ansia sociale

Partiamo allora cercando di dare una definizione di disturbo d’ansia sociale.  E’ un disturbo molto diffuso nella popolazione (dal 5 al 7 %), la sua caratteristica di base è la paura del giudizio degli altri. Vediamo la definizione che ne dà il DSM: il manuale di riferimento per quanto riguarda la diagnosi dei disturbi mentali: “Paura marcata e persistente di una o più situazioni sociali o prestazionali nelle quali la persona è esposta a persone non familiari o al possibile giudizio degli altri. L’individuo teme di agire (o di mostrare sintomi di ansia) in modo umiliante o imbarazzante.”

Da questa definizione emerge quindi chiaramente come il fattore principale sia la paura del giudizio. Chi ne soffre ha paura di mostrare i sintomi della propria ansia, come tremore, rossore, sudorazione intensa, sensazione di blocco mentale, amnesia, abbassamento o tremore nel tono della voce, tachicardia e inoltre teme di comportarsi in modo goffo e inadeguato. Chi ne soffre sperimenta inoltre una intensa aspettativa del fallimento e della critica da parte degli altri. L’insieme di queste sintomatologie si evidenziano spesso drammaticamente nelle occasioni in cui occorre parlare in pubblico.

Il manuale specifica inoltre che se questi sintomi durano per più di 6 mesi e compromettono la vita sociale e lavorativa allora, molto probabilmente, siamo di fronte ad un vero e proprio disturbo (quindi non si può parlare più di sola timidezza) che sarà bene affrontare in una psicoterapia.

Ansia sociale: comportamenti che peggiorano e mantengono il disturbo

Esistono una serie di comportamenti che, oltre a mantenere il disturbo, poi contribuiscono a  peggiorare la situazione.  A) Evitamento:  di fronte a situazioni ansiogene tendiamo tutti  ad evitare il disagio che ci provocano; questa strategia però ci crea limitazioni nella vita sociale peggiorando il disturbo e la conseguente idea di non essere in grado di affrontare quelle situazioni. Il risultato non può che essere una riduzione dell’autostima.

B) Anticipazione negativa: consiste nell’immaginare situazioni di forte ansia e disagio prima ancora di sperimentarle; ad esempio se in una riunione devo parlare difronte ad alcuni colleghi immagino già di avere la bocca secca, di sbagliare le parole, di bloccarmi nel discorso e di essere deriso o criticato. Queste aspettative negative oltre a creare sofferenza contribuiscono a mantenere in piedi il disturbo. Si prefigurano così immagini catastrofiche che drammatizzeranno la situazione, con un effetto di profezia autorealizzante. Vi faccio notare come questo meccanismo non fa altro che andare a rinforzare le credenze patologiche su di se che ognuno di noi ha.

Rimedi

Come uscire da tutto  questo? Molte ricerche scientifiche hanno dimostrato che la strada più efficace è la psicoterapia. L’approccio migliore prevede 3 tappe fondamentali:

a) storia di vita del soggetto:  si ricostruisce con il soggetto la sua storia familiare e evolutiva andando alla ricerca di quelle situazioni familiari o sociali alla base di quelle credenze patogene e inconsce all’origine della fobia sociale.

Infatti le persone spesso non capiscono l’origine delle loro paure ma attraverso questo tipo di ricerca non è raro che scoprano che esse sono strettamente legate a dinamiche e modalità relazionali vissute in famiglia. Ad esempio può capitare di nascere in una famiglia dove è già presente una forte ansia per il giudizio, la tendenza al perfezionismo, la paura ad esprimersi; queste modalità vengono facilmente assimilate dal soggetto  senza che egli ne abbia consapevolezza e non è raro che giunga ad identificarsi con esse. La stessa cosa avviene quando i nostri errori vengono corretti con eccessiva severità creando così non solo sensi di colpa e vergogna ma impattando negativamente sulla nostra autostima.

b) mettere in discussione i pensieri automatici:  si aiuta la persona a prendere consapevolezza delle proprie credenze automatiche al fine di distanziarsene.  Si riduce in questo modo la tendenza alla drammatizzazione  dei propri vissuti.

c) l’esposizione in vivo: si costruisce in terapia una scala  delle 10 situazioni dove si sperimenta più ansia sociale, mettendo al primo posto quella che crea più ansia e al decimo quella che crea meno ansia. Si aiuta poi la persona ad affrontarle una alla volta in modo che possa scoprire di essere in grado di gestirle. Ciò non potrà che aumentare la fiducia in se stesso e l’autostima.

Tre consigli pratici

se la vostra è una leggera ansia sociale vi basterà seguire alcuni semplici consigli per ridurre la sensazione di disagio.

 A) Un primo consiglio è razionalizzare la paura prima di parlare in pubblico o in una qualsiasi situazione sociale provando a chiedersi: ma l’ansia che sto provando è davvero proporzionata alla situazione? Per contrastare la tendenza all’evitamento posso invece domandarmi: mi conviene lasciar scappare questa occasione sociale o lavorativa?

B) Poi è importante esporsi gradualmente alle situazioni che più ci fanno paura creando, come ho spiegato prima, una lista delle 10 situazioni che ci trasmettono più ansia e provando pian paino ad affrontarle; si parte dalla situazione che provoca meno ansia e si passa alla successiva solo dopo che avvertiamo una sostanziale riduzione dell’ansia.

C)Inoltre può essere utile abbinare semplici tecniche di respirazione come la respirazione diaframmatica per una riduzione immediata dell’ansia o tecniche più complesse come il training autogeno che nel lungo periodo possono essere di aiuto.  

D) Se dovete parlare in pubblico provate ad osservarlo un po’ prima di salire sul palco in modo da renderlo più familiare. Potete anche  immaginate le persone in una situazione quotidiana. Questo vi aiuterà a familiarizzare con il pubblico e ad avvertire meno paura del loro giudizio nei vostri confronti. Se questi 4 consigli non dovessero bastarvi  allora vi consiglio di rivolgervi ad uno psicologo psicoterapeuta per aiutarvi a superare il problema.

Perché è in aumento?

Ma perché questo tipo di ansia è in aumento? Uno dei più importanti fattori è a mio parere legato al tipo di società in cui viviamo con ritmi sempre più frenetici e dalle esigenze che essa ha nei nostri confronti rispetto al passato: sempre più spesso ci viene richiesto di rendere al massimo delle nostre possibilità, di mostrarci prestanti ed efficienti in ogni occasione.

Insomma in questo mondo, dove tutto corre sempre più veloce, la tua autostima è sempre più determinata dal valore che gli altri ti attribuiscono piuttosto che dalle risorse che possiedi e che vorresti esprimere. L’invito è quindi quello di puntare a sviluppare se stessi dando meno peso alle aspettative degli altri riscoprendo così la nostra unicità.

Conclusioni

Tutti prima o pio sperimentiamo un po’ d’ansia sociale. Diventa un problema se ci blocca eccessivamente e ci fa rinunciare a occasioni importanti che la vita ci offre. In questo caso è importante farsi aiutare da uno psicologo psicoterapeuta e iniziare una psicoterapia.

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Ansia: Cos’è, Perché Nasce e Come Gestirla Davvero (Guida Completa con Consigli Pratici)

L’ansia è una delle condizioni psicologiche più comuni del nostro tempo. Non riguarda solo chi soffre di attacchi di panico o crisi acute: molte persone vivono forme di ansia costanti, sottili, ma altamente invalidanti nella vita quotidiana. In questo articolo desidero offrirti una guida completa, chiara e pratica basata sulla mia esperienza ventennale come psicoterapeuta.

Ti accompagnerò a comprendere cos’è l’ansia, perché si sviluppa, come si manifesta, e soprattutto quali strategie concrete puoi usare oggi stesso per iniziare a ridurla in modo efficace.

1) Cos’è l’Ansia? Una definizione semplice e utile

L’ansia è una risposta naturale del corpo quando percepisce un potenziale pericolo, reale o immaginato. È una reazione progettata per proteggerci, non per danneggiarci.

In altre parole:
l’ansia è un segnale, non un nemico.

Ci avvisa che serve attenzione, che qualcosa va affrontato o preparato. Il problema nasce quando questo sistema, utile in situazioni specifiche, rimane attivo troppo a lungo o si attiva senza una reale minaccia, generando:

  • tensione fisica costante
  • pensieri catastrofici
  • preoccupazioni ripetitive
  • sensazioni di allerta continua

L’ansia diventa allora un freno, non più un aiuto.

2) Perché l’Ansia si sviluppa? Le cause più comuni

L’ansia non nasce mai per caso. È il risultato di un insieme di fattori che interagiscono tra loro.

2.1. Fattori biologici

Il nostro sistema nervoso può essere più sensibile allo stress. Alcune persone nascono con un “volume interno” dell’allerta leggermente più alto.

2.2. Fattori psicologici

Tra i più frequenti troviamo:

  • pensiero catastrofico
  • bassa autostima
  • bisogno di controllo
  • perfezionismo
  • paura del giudizio

Questi elementi alimentano l’ansia quotidiana.

2.3. Fattori ambientali

Eventi stressanti e situazioni prolungate nel tempo aumentano l’attivazione ansiosa:

  • lavoro pressante
  • relazioni disfunzionali
  • carichi familiari
  • solitudine
  • cambiamenti importanti

2.4. Stile di vita

Alcune abitudini comuni peggiorano l’ansia:

  • dormire poco
  • abuso di caffeina
  • alimentazione irregolare
  • mancanza di movimento
  • iperconnessione digitale

2.5. Traumi e esperienze irrisolte

Ferite emotive non elaborate, anche molto lontane nel tempo, mantengono il corpo in uno stato di allerta.

3) I sintomi dell’Ansia: riconoscerli per intervenire

L’ansia non si manifesta allo stesso modo in tutte le persone. Tuttavia, esistono segnali chiari che indicano che il sistema nervoso è sovraccarico.

3.1. Sintomi fisici

  • tachicardia
  • respirazione affannosa
  • tensione muscolare cervicale
  • mal di testa
  • capogiri
  • nodo alla gola
  • difficoltà digestive
  • sudorazione

3.2. Sintomi emotivi

  • nervosismo
  • irritabilità
  • senso di minaccia
  • paura senza motivo
  • sensazione di perdere il controllo

3.3. Sintomi cognitivi

  • pensieri ricorrenti
  • anticipazione negativa
  • difficoltà di concentrazione
  • rimuginio costante

3.4. Sintomi comportamentali

  • evitamento delle situazioni temute
  • dipendenza da rassicurazioni
  • ipercontrollo procrastinazione

Riconoscere questi segnali è il primo passo verso la gestione dell’ansia.

4) Le forme più comuni di ansia

Non tutta l’ansia è uguale:

4.1. Ansia generalizzata

Preoccupazioni costanti su più ambiti della vita.

4.2. Attacchi di panico

Episodi improvvisi di intensa paura accompagnati da sintomi fisici.

4.3. Ansia sociale

Paura del giudizio o delle situazioni relazionali.

4.4. Fobie specifiche

Paure intense verso un oggetto o una situazione (volare, insetti, sangue…).

4.5. Ansia da prestazione

Nello studio, nel lavoro, nello sport o nella vita intima.

5) Il circolo dell’ansia: come si mantiene attiva

L’ansia segue spesso un circuito ricorrente:

  1. c’è una sensazione o un pensiero
  2. la mente lo interpreta come pericoloso
  3. il corpo reagisce con sintomi
  4. i sintomi generano nuovi pensieri catastrofici
  5. la paura aumenta
  6. si evitano le situazioni che spaventano
  7. l’evitamento conferma la presenza del pericolo

Questo ciclo si rafforza ogni volta che l’ansia non viene affrontata.

6) Come gestire l’Ansia nella vita quotidiana: consigli pratici ed efficaci

Questa è la parte più importante: cosa puoi fare concretamente per ridurre l’ansia?
Ecco strategie che utilizzo da anni in terapia, semplici ma estremamente efficaci.

6.1. Tecniche di respirazione per ridurre l’ansia immediata

Quando sei in ansia, il tuo respiro diventa corto e veloce.
Questo invia al cervello un messaggio di pericolo.

La respirazione lenta e profonda, invece, comunica sicurezza.

Esercizio efficace: Respirazione 4-6

  • inspira lentamente per 4 secondi
  • espira per 6 secondi
  • ripeti per 2–3 minuti

L’espirazione più lunga attiva il sistema calmante (parasimpatico).

6.2. Il grounding: tornare nel presente per interrompere il panico

Quando l’ansia aumenta, la mente corre nel futuro. Il grounding ti riporta nel qui e ora.

Metodo 5-4-3-2-1

  • nota 5 cose che vedi
  • 4 cose che puoi toccare
  • 3 suoni che senti
  • 2 profumi
  • 1 sensazione fisica

In pochi secondi il cervello riduce l’allerta.

6.3. Gestire i pensieri ansiosi con la tecnica del “dialogo interno corretto”

Molti pensieri ansiosi non sono fatti, ma interpretazioni.
Ecco come correggerli.

Domande utili

  • “Questa paura si basa su un fatto o su un’ipotesi?”
  • “Se la stessa cosa accadesse a un amico, cosa gli direi?”
  • “Quante volte ciò che temo è realmente successo?”

Questo riduce la credibilità dei pensieri catastrofici.

6.4. Ridurre il rimuginio con la “regola dei 10 minuti”

Se la mente insiste su un pensiero:

  1. Concediti 10 minuti per pensarci.
  2. Metti un timer.
  3. Al termine, cambia attività.

La mente capirà che non può trascinarti all’infinito.

6.5. Movimento: il miglior ansiolitico naturale

L’attività fisica regolare:

  • abbassa il cortisolo
  • aumenta la serotonina
  • regola il sistema nervoso
  • riduce la tensione muscolare

Non servono allenamenti estenuanti:
20–30 minuti di camminata veloce al giorno sono già molto efficaci.

6.6. Gestione della caffeina e alimentazione

Troppa caffeina amplifica l’ansia imitando i suoi sintomi.
Ridurre del 30–50% il consumo fa una grande differenza.

In più:

  • fare pasti regolari
  • evitare lunghi digiuni
  • aumentare idratazione

aiuta il corpo a stabilizzarsi.

6.7. Tecniche di rilassamento muscolare

Spalla e collo sono i primi a irrigidirsi.
Un esercizio utile è il rilassamento progressivo:

  1. Tendi un gruppo muscolare per 5 secondi
  2. Rilascia e nota la differenza

Ripeti per 8–10 gruppi muscolari.

6.8. Limitare l’iperconnessione

Notifiche, chat e social mantengono il cervello in uno stato di allerta continua.
Impostare 2–3 momenti al giorno per controllare i messaggi abbassa drasticamente l’ansia.

7) Quando l’ansia parla del nostro passato: comprenderla per liberarsene

A volte l’ansia non nasce da ciò che viviamo oggi, ma da vecchi copioni emotivi.

Se nell’infanzia:

  • eri criticato
  • dovevi essere “perfetto”
  • dovevi farti carico degli altri
  • sentivi un clima di imprevedibilità

oggi potresti vivere l’ansia come un vecchio schema che si riattiva.

Comprendere la propria storia permette di smettere di lottare contro l’ansia e iniziare a leggerla.

8) L’importanza di chiedere aiuto professionale

Se l’ansia limita la tua vita, ti impedisce di dormire, lavorare o vivere relazioni serene, non è un fallimento chiedere aiuto: è un atto di forza.

Una psicoterapia può aiutarti a:

  • comprendere l’origine dell’ansia
  • interrompere i cicli di pensiero
  • sciogliere i traumi passati
  • costruire un nuovo equilibrio

L’obiettivo non è “eliminare” l’ansia, ma renderla gestibile, finché non diventa solo un segnale tra tanti, non più il protagonista.

9) Conclusione: l’ansia può essere gestita, passo dopo passo

L’ansia non è un difetto, né una condanna. È un linguaggio.
Più lo ascolti e più impari a rispondere in modo adeguato.

Ricorda:

  • puoi ridurre l’ansia con tecniche semplici
  • puoi cambiare i tuoi schemi di pensiero
  • puoi imparare a calmare il corpo
  • puoi affrontare le radici profonde se ti fai accompagnare

Il cambiamento è possibile, ed è più vicino di quanto pensi.

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Musicoterapia recettiva: come agisce sul benessere psicologico.

Nel mio lavoro di psicologo utilizzo spesso la musicoterapia recettiva sia in maniera individuale che gruppale poiché tramite essa è possibile aggirare le resistenze psicologiche (prettamente dovute alla razionalità ed al bisogno di controllo) e mettere in moto la creatività, alleata indispensabile per risolvere i piccoli o grandi conflitti che ognuno di noi ha. Infatti è difficile accedere a livelli più profondi della psiche che sfuggono alla consapevolezza cosciente; spesso ci difendiamo da parti di noi stessi che non vogliamo conoscere per paura o perché ci giudichiamo severamente. La musicoterapia recettiva ci può aiutare a superare le resistenze della razionalità e conoscerci meglio!

La musicoterapia essendo una tecnica prettamente non verbale riesce ad aggirare le barriere della razionalità e le nostre difese per farci accedere a ciò che è più profondo e autentico in noi; lo psicoanalista C.G. Jung definiva ciò le nostre parti “ombra”. Se in questa ricerca siamo condotti da un’ esperto di cui ci fidiamo perché riteniamo un bravo psicologo e compagno di viaggio, allora riusciremo a superare le nostre paure e a scoprire parti di noi anche apparentemente non belle (come egoismo, narcisismo ecc..) ma che possiamo trasformare in potenti alleati per fare del bene a noi e al mondo che ci circonda.

La Musicoterapia Recettiva

Nonostante esistano molti tipi e tecniche di musicoterapia è fondamentalmente possibile individuarne due tipologie: la musicoterapia attiva (che utilizza strumenti musicali che non richiedono una preparazione musicale specifica) e la musicoterapia recettiva, oggetto di questo articolo.

La musicoterapia recettiva consiste essenzialmente nell’ascolto di musica (pre-registrata o suonata in diretta dal conduttore) in forma individuale o gruppale. In questo caso la musica agisce su di noi in due modi: 1) oggettivamente: attraverso l’effetto che la musica ha sul corpo e il cervello; 2) soggettivamente: l’ascolto musicale produce immagini e vissuti emotivi diversi per ciascuno di noi.

Studi sugli effetti della musica recettiva

A partire dalla metà del 1900 sono stati sempre più studiati gli effetti dell’ascolto musicale sul cervello e sul corpo, grazie soprattutto allo sviluppo di tecnologie come la T.A.C. o la P.E.T. Questi studi coinvolgono quindi direttamente la musicoterapia recettiva. E’ stato così ampiamente dimostrato che la musica è in grado di produrre emozioni e stimolare funzioni del Sistema Nervoso Centrale. Alcuni ricercatori hanno cercato di capire se diversi tipi di musica inducessero lo stesso tipo di effetti sulle persone. Nel 2009 B.L. Copland e B. Don Franks pubblicarono uno studio sulla musicoterapia recettiva dove emerse una correlazione tra l’ascolto di musica lenta, di basso volume e facile ascolto con la diminuzione della frequenza cardiaca e la ridotta percezione dello sforzo durante un esercizio fisico; hanno inoltre rilevato una correlazione tra l’ascolto di musica ad alta intensità (volume) e ritmicamente veloce con l’aumento della frequenza cardiaca.
In un’altro studio del 2009 si è trovata una correlazione significativa (P=0.05) tra l’ascolto di estratti di musica classica caratterizzati da un crescendo di intensità, con l’aumento del ritmo respiratorio e cardiaco, quindi registrando un’attivazione del Sistema Nervoso Autonomo; si è inoltre osservato come l’ascolto di brani uniformi produca una vasodilatazione e riduzione della pressione sanguigna. In effetti ciascuno di noi quando ha voglia di rilassarsi sceglie di solito musiche lente, con note lunghe e con un volume medio basso. Mentre se vuole “caricarsi” in media sceglierà una musica incalzante e a volume più alto. La musicoterapia recettiva può essere quindi un valido strumento per ridurre l’ansia (https://www.musicaeterapia.it/2018/12/22/psicologo-torino-ansia-rimedi-parte-1/)

Effetti transculturali

Ma questi effetti valgono al di là della cultura di appartenenza? Alcuni ricercatori hanno cercato di rispondere a questa domanda. Nel 2009 è stato pubblicato uno studio su 41 soggetti, 21 appartenenti alla cultura Mafa (popolazione nativa africana) e 20 cittadini statunitensi. Lo studio ha dimostrato che nonostante le differenze culturali entrambi i gruppi riconoscevano ed attribuivano ai brani ascoltati (che appartenevano al genere della western music) le stesse tre emozioni base: felicità, tristezza, paura.

Effetto soggettivo dell’ascolto musicale

Ogni brano musicale suscita emozioni ed immagini che possono essere diverse per ciascuno di noi. Ciò è strettamente connesso alle nostre esperienze di vita e memorie inconsce. Immaginiamo ad esempio di ascoltare un brano musicale con diversi strumenti a percussione che di solito suscitano immagini di gruppo (come rituali o feste) associate a sensazioni di piacere e divertimento; se però la persona che ascolta ha difficoltà psicologiche e relazionali nello stare in gruppo (per diverse ragioni soggettive) potrà patire l’ascolto e verbalizzare immagini dove ad esempio il gruppo non compare. In questo caso quindi la musicoterapia recettiva può essere utilizzata dallo psicologo per aiutare il soggetto a scoprire le parti di se stesso rimosse dalla coscienza e quindi diventare consapevole delle proprie modalità relazionali, cercando così di integrarle con altre più funzionali.

Riassunto

La musicoterapia recettiva utilizza l’ascolto musicale come strumento di intervento sia individuale che gruppale. La ricerca ci dice che esistono dei parametri sonoro musicali che tendono a suscitare in media un vissuto simile nell’essere umano al di là della cultura di appartenenza. Esiste però una risposta individuale che dipende dalle esperienze e dalla storia del singolo individuo. Utilizzare la musicoterapia recettiva all’interno di un percorso psicologico può essere d’aiuto a conoscere meglio se stessi e il proprio modo di stare nelle relazioni potendo così intervenire per modificare gli aspetti disfunzionali.

Per un approfondimento sulla musicoterapia clicca qui: https://musicaeterapia.it/musicoterapia/

Bibliografia

Zatorre R.J., Belin P., Penhume V.B., 2002; Fritz T., Jentschke S., Gosselin N., Sammier D., Peretz L, Turner R., Friederici A.D., Koelsch S., 2009.

Copland B.L., B. Don Frank, 1991; Bernardi L., Porta C., Casucci G., Balsamo R., Bernardi N., Fogari R., Sleight P., 2009.

L. Bernardi, C. Porta, G. Casucci, R. Balsamo, N. Bernardi, R. Fogari, P. Sleight, 2009.

Fritz T.,  Jentschke S.,  Gosselin N.,  Sammier D., Peretz I.,  Turner R., Friederici A.D., Koelsch S., Universal Recognition of Three Basic Emotion in Music, Current Biology 19, April 14, 2009, (573-576);

Cattich N., Saglio G., L’oltre e l’altro. Arte come terapia, Priuli & Verlucca editori, Borgaro T.se (To), 2009;

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Musicoterapia e bullismo.

Musicoterapia e bullismo

Alcuni giorni fa mi è stato chiesto se è possibile utilizzare la musicoterapia come intervento preventivo o curativo nel bullismo.

Cause del bullismo

Il bullismo ha diverse cause ed origini ed infondo ogni caso è specifico. Per costruire un intervento in una classe scolastica è necessario capire quali sono stati i fattori scatenanti che hanno contribuito a creare questa dinamica relazionale patologica. Quindi un intervento serio in questo ambito è sempre “caso-specifico”.

Tuttavia tra le varie cause alla base ne esiste una di natura psicologica che spesso emerge in queste situazioni; il bullo infatti vede la vittima come qualcuno di diverso, sbagliato, “antipatico”; può essere per il colore della pelle, per un’estrazione sociale diversa o per caratteristiche psicofisiche della vittima come timidezza, goffaggine, introversione, ansia etc..

Quindi c’è “qualcosa” nella vittima che è intollerabile, inaccettabile per il bullo.

Se ci pensiamo bene anche a noi adulti a volte capita di provare una forte antipatia o rifiuto verso qualcuno senza neanche conoscerlo bene; ma quando ci soffermiamo a riflettere ci rendiamo conto che magari questa persona ha delle caratteristiche che in noi stessi non riusciamo ad accettare, che non ci piacciono e che quindi guardandole nell’altro ci creano antipatia. Alla base di questo vissuto c’è un meccanismo di difesa psicologico che si chiama proiezione: guardiamo e giudichiamo nell’altro ciò che in noi ci fa “male” vedere.

La stessa cosa quindi può succedere nel bullo: vede nella vittima degli aspetti che per lui sono intollerabili creandogli un senso di pericolo ed insicurezza e quindi come tali deve allontanarli da sè; ecco perchè ha bisogno di schiacciare l’altro, di sottometterlo.

Tutto ciò quindi paradossalmente lo aiuta a sentirsi più forte e sicuro.

Come intervenire.

Quindi tutti gli interventi che cercando di avvicinare il bullo e la vittima, di creare una relazione, farli conoscere sono utili in senso preventivo e curativo.

Infatti con la musicoterapia un intervento basato sulla collaborazione in gruppo per raggiungere uno scopo, come creare una canzone o sonorizzare una favola inventata, sono utili a questo scopo.

E’ importante che ogni intervento di musicoterapia lavori anche sul riconoscimento delle propri emozioni e quelle dei compagni; sviluppando quindi l’empatia che è la vera “medicina” per disinnescare la dinamica del bullismo.

Solo quindi attraverso una conoscenza reciproca, avvicinando le due parti in conflitto si potrà sviluppare una “simpatia” che consiste nel riconoscere parti di se stessi negli altri. Per approfondire il tema della musicoterapia leggi qui: https://musicaeterapia.it/musicoterapia/

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